Raccontare il Patchwork

Raccontare il Patchwork

Qualche storia per saperne di più…

 

Il  “Quilting Bee “(Riunione per il trapunto di una grande coperta) in  un villaggio del Galles alla fine del XIX secolo

Quando Emily era passata quella mattina era trafelata, mancava solo un mese al matrimonio della  figlia e oltre a tutti i preparativi c’era la grande coperta matrimoniale, il suo particolare regalo di nozze, che doveva essere completata e rifinita con il trapunto. Con molto garbo le aveva chiesto  se sarebbe venuta il sabato successivo ad aiutarla  per le rifiniture e   scappando  aveva aggiunto “Speriamo che faccia bel tempo, e che vengano anche le altre”.  All’Emporio aveva incontrato altre amiche che ne parlavano: tutte  sapevano  di quell’incontro perché Emily aveva attaccato un annuncio sulla bacheca nell’atrio della chiesetta parrocchiale.

Quel sabato si prese sotto ottimi auspici.  La mattina faceva ancora un po’ freddo, ma non pioveva ormai da due giorni e si poteva camminare  sui viottoli stretti, solitamente fangosi.

Aveva raggiunto la casa di Emily e lì aveva trovato  oltre alla futura sposa e all’anziana nonna, altre donne , qualcuna aveva portato i bambini che non si potevano lasciare a casa, c’era anche un neonato che bisognava allattare.

La cucina della vecchia casa era piena di luce.  Il sole entrava dalle finestre che davano sul giardino.  Al posto del  tavolo  era stato messo un grande telaio  costruito da quattro assi messe a quadrato e appoggiate su rozzi cavalletti di legno, presi in prestito dalla falegnameria del villaggio .  Sui  lati di questo telaio improvvisato stava appuntato e tirato con spilloni e fettucce un grande quilt, di quelli che sono chiamati ‘reali’ per le grandi dimensioni. L’aveva già ammirato mentre l’amica ne completava i blocchi, tutti diversi tra loro e   che adesso messi  insieme a comporre il cielo della grande coperta, con i vari disegni uniti tra loro da lunghe  fasce colorate facevano un effetto sorprendente per la delicatezza delle tinte e degli abbinamenti di colore.  Provava una grande  tenerezza,  sapeva che ogni pezzetto di stoffa  proveniva dai vestiti smessi  della figlia,  conservati con cura fin da quando era una bambina:  un’antologia di ricordi colorati, una memoria perenne della vita vissuta insieme.

Le altre donne ed io stavamo sedute intorno al telaio  mentre i bambini  ci osservavano attenti:  uno si era infilato sotto la coperta tesa, incuriosito da quelle strane operazioni. C’erano anche due ragazze molto giovani venute per aiutare e così imparare da noi più esperte: era un’occasione preziosa e noi eravamo sempre disposte ad insegnare. Cucivamo in silenzio concentrate sul  lavoro, ma senza perdere di vista i bambini che  entravano e uscivano dalla porta aperta sul giardino.  C’era  chi andava e veniva  seguitando  a fare le solite faccende;  in un angolo il nonno continuava a costruire cestini , sembrava poco interessato a quello che stavamo facendo, ma era tutto orecchie per non perdere una parola delle nostre chiacchiere.

Appoggiati sulla stoffa  c’erano forbici, aghi e rocchetti di filo, ditali;  sapevo che alla fine della giornata oltre alla mia schiena, il mio indice sinistro avrebbe portato i segni di tutti i miei punti. Una ragazza   in piedi nel vano di una finestra infilava  gugliate di filo così non dovevamo fermarci e potevamo continuare  a trapuntare senza interruzioni.

La futura sposa stava seduta di fronte alla nonna che cuciva con lenta perizia  e si scambiavano sguardi  di  intesa e di  soddisfazione. Ogni tanto qualcuna si fermava, interrompeva  il lavoro per   ammirare il risultato che già si vedeva comparire sulla stoffa, merito dei  piccoli punti tutti allineati precisi e regolari. Ognuna stava attenta a  completare la sua parte: l’ago attraversava la stoffa, l’imbottitura morbida, usciva dalla fodera,  veniva ripreso e leggermente tirato sul diritto del quilt,  così il filo dava ai disegni un gonfiore che  ne sottolineava le linee, come se qualcuno ci soffiasse dentro. Quel  risultato finale era fonte di meraviglia, era sempre inaspettato.  Le tornava alla mente il minuscolo quilt che aveva cucito per il lettino del suo primo figlio, l’aveva decorato con figure di animaletti e trapuntato tirandolo sul  telaio del  ricamo.  Adesso stava riposto sul fondo del  cassettone , assieme alle altre coperte.

Pensava, non senza un pizzico di bonaria invidia, alla gioia della sposa quando avrebbe steso il  quilt finito sul suo letto nuziale e il pensiero  sarebbe tornato a quella mattina piena di sole, a quelle donne sedute nella cucina di sua madre  che l’avevano cucito  con tanta pazienza.

E poi quasi a metà pomeriggio, arrivava  trionfante Emily  con il vassoio del tè sul quale troneggiava la panciuta teiera fumante con  le tazze e il bricco del latte freddo, portato sulle braccia come un trofeo.  Adesso avrebbero fatto una pausa,  parlato dei loro progetti , interrogato la sposa e  assaggiato la deliziosa torta al rabarbaro, specialità della padrona di casa. Riprendevano subito il lavoro e non si smetteva   finché ci fosse stata abbastanza luce e non fosse arrivata  l’ora di tornare a casa a preparare il cibo per la cena.  Per le rifiniture finali ci avrebbero pensato Emily e la nonna. Tra meno di un mese, nel giorno delle nozze,  tutti l’avrebbero  potuto ammirare esposto,  con il resto del corredo, come consuetudine. Sapeva che anche lei ne sarebbe stata orgogliosa.

 

Tra i monti della Carnia

 

Ogni tanto alzava la testa e guardava le montagne.  Aspettava di vedere apparire da un momento all’altro,  sul prato  alto tutto in discesa dietro la casa,  le  due mucche  accompagnate da suo fratello che  tornavano dal pascolo .

Si rimetteva a cucire  con  l’ago stretto nella mano rugosa e si aiutava con l’altra anche quella gonfia di artrite, tirava il filo e  esaminava soddisfatta   i suoi punti   corti  e  tutti uguali.

Aveva passato giorni a cercare e scegliere pezzi di stoffa tirando fuori dal fondo della cassapanca i vecchi vestiti riposti, ormai dimenticati. Li aveva prima scuciti ben bene e poi tagliuzzati conservando le parti migliori.  Adesso stavano tutti in un cesto, una vecchia gerla che nessuno più adoperava, per lei era troppo grande e diventava pesante quando era piena di legna.  Li tirava fuori uno dopo l’altro, li lisciava appoggiati sul ginocchio, il ferro da stiro lo avrebbe usato solo alla fine, li rifilava con le forbicine che teneva appese al collo con un nastro azzurro,

“ Come il colore dei tuoi occhi “, così  aveva detto il nipotino guardandola da vicino.

L’aspettava, sapeva che  sarebbe tornato, come tutti gli anni, durante l’estate. Figli e nipoti abitavano  in città ma  lui  con sua madre veniva a passare qualche giorno nella vecchia casa e sarebbero andati tutti insieme a fare lunghe passeggiate sulla montagna .

La nipote era aggiornata, moderna e  parlava anche l’inglese. Aveva visto e ammirato i lavori  che la nonna faceva con i pezzetti di stoffa,  le aveva detto che si chiamava patchwork, lei non riusciva neanche a pronunciare quella parola.  Le aveva raccontato che negli Stati Uniti ogni disegno aveva un nome e che  tutti conoscevano e praticavano questo lavoro di cucito. Ma a lei non importava, tanto nelle Americhe non ci sarebbe andata mai e quando sentiva la parola America diventava triste.   Rivedeva il volto di suo marito, ormai morto da molti anni. Era emigrato proprio in America insieme ad altri paesani, e ricordava bene i suoi racconti. Erano  tutti montanari e carpentieri,  salivano in alto dove nessun altro poteva, erano come gli uccelli sugli alberi che svolazzano e intanto, salgono veloci sui rami più alti.  Quando era tornato  aveva pianto al rivedere la sua casa. Con i  soldi americani  avevano potuto crescere i figlioli che erano numerosi, ma la povertà era sempre tanta e lei aveva dovuto fare molti mestieri, come un uomo .

Adesso che era tanto avanti negli anni poteva restare seduta sulla sua seggiola bassa, guardare le montagne e passare le ore del pomeriggio con i suoi pezzetti di stoffa colorata , era più divertente delle solite calze coi quattro ferri e la lana ruvida.  Appoggiava le piccole pezze in modo disordinato sopra la vecchia flanella di una camicia e le spostava finché non trovava una combinazione che le piacesse  allora si aggiustava il fazzoletto colorato che le scendeva sulla fronte,  un gesto quasi automatico e riprendeva a cucire.

“Venga dentro, tra un po’ piove”  la nuora che veniva a darle una mano nelle faccende di casa, si era affacciata e la chiamava.

Non le aveva dato retta, finché c’era luce preferiva approfittare e continuare a cucire restando all’aperto.

Doveva chiedere alla nipote di portarle qualche disegno da copiare magari uno di quelli americani.  Le piaceva quel  disegno che si chiamava “la capanna di tronchi” perché rappresentava la casa, con il fuoco al centro e tante striscette di stoffa intorno a raffigurare i legni delle pareti e del tetto, come una baita in montagna, come ce n’erano tante .

Il cane alla catena  abbaiava ai gatti dispettosi,  tra un po’ la vicina sarebbe tornata dalla campagna con il ‘barellino’  pieno di erba fresca per le bestie e  avrebbero scambiato un po’ di parole sulle novità del giorno e si sarebbe fatta l’ora di rientrare. Avrebbe rimesso a posto tutte le stoffe nella gerla, non senza aver prima riguardato con  amore il lavoro appena fatto e  dopo aver raccolto i fili,  le striscioline di stoffa sparse per terra, allora sarebbe  rientrata per preparare la zuppa di verdure per la cena . Dopo cena suo fratello si metteva davanti alla televisione , non le piaceva stare inerte davanti al piccolo schermo e rimaneva per un po’ vicino alla stufa, recitava due ‘poste’ di  rosario e poi si infilava sotto le coperte. Domani avrebbe cercato meglio nel cassettone tra i vecchi vestiti qualche colore vivace, le serviva un poco di rosso, chissà ?  Con questi pensieri si addormentava con il sottofondo della televisione che nessuno guardava e ascoltava nemmeno suo fratello che , come al solito, ronfava lì davanti.

 

 

 

 

 

Camminare sui quilt

 

Il monumento ritratto nella foto rappresenta un uomo  che tiene in mano,  sospeso su un mucchio di neve un quilt.  Il monumento si trova a Panguitch, una cittadina dell’Utah nell’Ovest degli USA:  è una storia che vale la pena di raccontare.

 

Correva l’anno 1864 e l ’inverno era arrivato con un freddo eccezionale, la neve era caduta così abbondante  che non si riusciva quasi più a spalarla tranne che per brevi tratti vicino alle case. La situazione diventava sempre più drammatica perché in attesa del disgelo, che non sapevano quando sarebbe arrivato, gli abitanti del villaggio  di Panguitch sarebbero morti di fame, le pro  vviste di grano e di mais erano finite e anche il fieno per le mucche;  mancava la  frutta che  non era arrivata a maturazione per il freddo precoce e  non si poteva andare a caccia:  il futuro non riservava molte speranze.

Il gruppo di pionieri che aveva fondato la comunità di Panguitch in una bella valle tra i monti si riunirono e decisero che se si voleva sopravvivere bisognava raggiungere la città più vicina e riportare a casa le provviste necessarie.

La riunione per decidere sulla partenza fu movimentata,  i pareri erano discordi, si dissero anche parole forti ma lo stato di necessità li obbligò alla fine ad essere tutti d’accordo. Si doveva rischiare,  così decisero di partire. Le donne dettero il loro contributo preparando del cibo per il viaggio, riempirono le sacche, piegarono ben strette le coperte, che li avrebbero riparati.

Si conoscono tutti i nomi dei sette uomini che, guidati da Alexander, nome davvero profetico, uscirono da Panguitch pieni di speranze.

Lo scontro con la realtà del freddo e della neve alta si presentò quasi subito insormontabile. Si affondava sempre di più in quella coltre incontaminata . Dovettero abbandonare il piccolo carro  che speravano di riportare carico di provviste. Avanzare nella neve, diventò sempre più faticoso, quasi impossibile, la meta appariva sempre più lontana, irraggiungibile. Tra quei sette uomini c’era un ragazzo sotto i vent’anni, che aveva insistito per partecipare alla spedizione e si era dato molto da fare per preparare i pochi bagagli.  Nella sacca che ognuno portava in spalla, c’erano i quilts, le calde coperte cucite in casa dalle loro donne,   che sarebbero servite per proteggerli dal freddo nelle soste, perché con quelle avrebbero costruito una specie di tenda protettiva. Gli tornò in mente il gioco che facevano da bambini quando scivolavano sulla neve usando una vecchia coperta come una slitta, si ricordò che il quilts non affondava sotto il peso del corpo. La proposta fece ridere qualcuno, ma Alexander decise di provare. Funzionava. Bastava stendere  sulla neve una coperta e camminarci sopra, un po’ si affondava ma si riusciva ad andare avanti. Così il cammino verso la città  continuò .

Le coperte si bagnavano e diventavano più rigide e lo schricchiolio del ghiaccio che si formava accompagnava il silenzioso cammino del gruppo.

Quando arrivarono alla città, furono accolti come degli eroi. Furono sfamati ma ripartirono quasi subito  presi  dall’ansia del ritorno alle loro case  e dal pensiero che  il peso dei sacchi di mais, di patate e tutto quello che avevano potuto procurare, che dovevano  portare in spalla, per non rischiare di bagnarli, li avrebbe rallentati nel cammino sopra i quilt. Ritrovarono i segni del loro passaggio all’andata: delle grandi orme impresse sulla superficie della neve, quadrati e rettangoli grandi come le coperte.

Finalmente erano tornati  sani e salvi, premiati dal loro coraggio.  Nel villaggio si fece festa e l’assemblea cittadina decise di fissare un giorno dell’anno a ricordo dell’impresa compiuta . Le donne si ripresero le  coperte, che guadagnarono il  posto  migliore davanti al camino dove si asciugarono ben bene  e furono conservate con maggior cura del solito perché  avevano salvato la vita a tutti loro.

Ancora oggi tutti gli anni a Panguitch si svolge, nel mese di giugno, una festa commemorativa, con un concorso che premia il migliore quilt che ricordi  la “Quilt Walk” di  quei sette uomini che camminarono nella neve usando i quilts.

 

La coperta di Giovanna

 

Arrancava sugli scalini della breve scalinata in mezzo alle case, si sentiva pesante, affannata, non vedeva l’ora di arrivare a casa. Quel   dottorino della ASL, dove tutti i mercoledì si sottoponeva alle inutili terapie le aveva  detto : “ Mi raccomando  signora si deve aiutare con il bastone, sì quello che porta sempre con sé,  purtroppo le canadesi non le possiamo dare più. Il budget non lo permette”,  l’aveva guardata e le sorrideva imbarazzato.  Tra un po’,ne era certa, non avrebbe potuto più camminare, allora avrebbe avuto bisogno di ben altro., ma non ci voleva pensare. Camminare era  faticoso ma il suo orgoglio era più forte della fatica,  sentiva che ce la doveva fare.

Si appoggiava con una mano al bastone e nell’altra teneva il carrello della spesa trascinandolo lungo gli scalini. Mah che le era venuto in mente, si era fatta convincere da Gigi a prendere tutta quella verdura, troppa davvero. Ma l’aveva vista  così bella e fresca e non si annoiava a passare un po’ di tempo a pulirla, lavarla, cuocerla ,metterla da pare per le torte rustiche che i suoi nipoti sembravano gradire..

Era quasi arrivata alla fine dei gradini. Guardava verso l’alto con un senso di sfida :

“ Ma che credi che non ce la faccio?” mormorava fra sé e sé.

Tutto quel peso non era dovuto solo alle verdure ma anche a un pacco di stoffe, molti metri, mica pezzette,  che pesavano un bel po’. Le  due ragazze  della merceria  erano giovani, entusiaste, facevano bene il loro mestiere. Erano state  convincenti e lei da tanto tempo cercava le stoffe per  fare quella coperta. Quando l’aveva vista esposta se n’era innamorata . Era successo qualche anno prima quando poteva ancora spostarsi da casa , prendere la metropolitana e poi il treno.

Era arrivata fino a Vicenza ed era entrata in quella fiera , immensa trovandosi quasi in un mondo di favola.  Tra tutte le cose che aveva visto,  quella coperta le era piaciuta tanto. Adesso tutta la stoffa, insieme alla fodera e all’imbottitura,  stava dentro il suo carrello della spesa ben  protetta da una busta di plastica, stretta vicina alle verdure, e pesava.  Bastava arrivare a casa, un braccio appoggiato al bastone l’altro che tirava il carrello    era sicura che ce l’avrebbe fatta,  dopo gli scalini  c’era una stradina tutta in piano e si sarebbe riposata.

Pensava con gioia a quando , tutte le mattine appena sveglia, si sarebbe messa al lavoro,  perché erano le ore in cui ci vedeva meglio e sentiva di avere l’energia per portare avanti  il lavoro . Si sentiva appagata, quel dolore che la perseguitava al fianco si affievoliva e credeva di camminare come una volta,  disinvolta un passo dietro l’altro.

In cima ai gradini della scalinata si era dovuta fermare,

“ Mi verranno dei muscoli formidabili’, aveva pensato guardandosi le braccia, quasi con soddisfazione, “ma devo smettere di portare pesi”  Aveva tirato a sé il carrello e l’aveva guardato  quasi con amore . Quelle stoffe anche se le  avevano fatto un buono sconto,  erano costate e avrebbero pesato sulla sua modesta pensione.  Non ci voleva pensare.

Quel lavoro l’avrebbe tenuta occupata per mesi e avrebbe  impegnato la mente, così per un po’ non avrebbe pensato soltanto ai dolori alle ossa o alle difficoltà della vita quotidiana; poteva restare in casa come in un guscio,  cucire e sentirsi felice  sola con il suo lavoro. Spenta la televisione solo la radio a farle compagnia.  Beh non doveva essere ingrata, le amiche che condividevano con lei la sua passione le stavano vicine, poteva contare su di loro, il telefono qualche volta non stava mai zitto. Quando c’erano riunioni importanti la venivano a prendere e la accompagnavano in macchina .

Era arrivata, appena aperto e richiuso il portoncino aveva buttato il bastone da una parte contro il muro del corridoio, ferma in piedi aveva tirato un lungo sospiro.  Per prima cosa aveva tirato fuori dal carrello della spesa il pacco delle stoffe.  Non vedeva l’ora di guardarle con calma, una per una,  se le voleva gustare.  Le teneva strette tra le braccia . Un po’ traballante aveva raggiunto  la  stanza  che in  origine era un salotto destinato alle visite ma col tempo era stata occupata in tutti i suoi spazi da stoffe, giornali, libri e attrezzi per il patchwork. Era la sua stanza da lavoro  Sul tavolo troneggiava bianca e imponente la sua adorata macchina da cucire.

“Eccoti, come al solito, bel pigrone,  ti sei accomodato proprio bene” si  era rivolta al gatto che, acciambellato sulla poltrona,  finalmente si era accorto del suo arrivo senza spostarsi di un centimetro :   “ Lasciami un po’ di spazio per favore, dai spostati  “.  L’aveva preso con il braccio libero e  si era seduta.  Il  pacco di stoffe da una parte e dall’altra il gatto che, poco interessato e curioso,  aveva richiuso gli occhi e ripreso a ronfare .

Giovanna adesso stava immobile, poteva rilassarsi, .aveva sospirato e poi per la stanchezza e l’emozione si era lasciata andare.

 

Nota d’autore: Ho scritto questi 4 raccontini tutti di invenzione all’inizio della mia pratica del Quilting, ossia molti anni fa.


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